Ci sono circa 40 specie nel genere Virola, il legname di questi arbusti tende a diventare rossastro dopo la raccolta.
Quasi tutte, se non tutte, secernono un essudato rosso denso una volta che la corteccia interna viene incisa o rimossa.
La specie più comune ed estensivamente impiegata è la thediora o elongata che cresce in Panama, Guaiana, Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador e Perù.
Gli autori sono discordi a riguardo: alcuni le considerano specie distinte, altri le identificano con una terza specie, la cuspidata.
Il monografo tassonomico più recente riporta thediora, elongata, cuspidata, rufula e calophilla come sinonimi [1].
USO MEDICINALE
Nell’herbarium dell’Istituto Botanico a Caracas in Venezuela è custodito un campione di Virola thediora dove è stata annotata l’applicazione nel trattamento delle ulcere aftose.
La droga è stata prelevata dal Delta dell’Orinico, si ipotizza che questa informazione provenga dalla medicina tradizionale dei nativi Warao.
I Tirios del Suriname sud-occidentale applicano la resina rossa su afte e micosi epidermiche; i Wayana la usano localmente per trattare le irritazioni genitali [2].
Nella Guaina l’essudato di diverse specie di Virola viene impiegato contro candidasi e cataratta [3], queste applicazioni erano già state riportate nel 1775 dal botanico francese Aublet.
Sembra anche che una specie di Virola non identifica sia stata usata come contraccettivo dalle tribù del Rio Negro, ma non si hanno notizie sulla parte impiegata e la sua eventuale preparazione [4].
McKenna riporta che la corteccia di un’altra specie non identificata viene fumata insieme al tabacco dagli stregoni brasiliani [5].
VELENO
Il primo a documentare l’uso del lattice di virola nelle attività venatorie è stato l’italiano Biocca che aveva acquisito l’informazione da un gruppo Yanomamö del Rio Cauaburí [4].
La thediora in particolare viene utilizzata da un gruppo waika dell’area del Rio Totobí.
I nativi intingono più volte le punte nella resina collocata a strati facilitando il procedimento con un gentile riscaldamento sul fumo del fuoco.
Affermano che l’azione del veleno di Virola è molto lenta e costringe il cacciatore ad un lungo inseguimento [6].
Al contrario Lizot riporta che solo la prima freccia sortisce un effetto sull’animale, altri colpi sarebbero inutili [7].
Gli italiani Galeffi et al. analizzarono un campione del veleno usato dagli Yanomamo rivelando un alta concentrazione di 5-MeO-DMT e l’assenza di sostanze direttamente tossiche [8].
Si ipotizza che il composto causi qualche disturbo nel comportamento dell’animale rendendone più facile la cattura.
SNUFF ALLUCINOGENA
Fino agli anni ’50 si pensava che fossero i semi di l’Anadenanthera gli ingredienti unici delle snuff allucinogene amazzoniche e che venissero impiegati anche nelle zone dove la pianta non cresceva [9].
La scoperta della resina di virola ha rivoluzionato questa visione e aperto la strada allo studio di altre Myristicaceae allucinogene diffuse in Amazzonia.
Le snuff vengono chiamate dalle varie tribù con diversi nomi: tyá-kee, yá-to e paricá in Colombia; epéna, ebene, paricá e nyakwána in Brasile; cumala in Perù; camaticaro, cedrillo, cuajo in Venezuela [10].
Questi nomi sono poco indicativi: parica può anche riferirsi all’Adenanthera e epéna o ebene viene usato come termine generale per snuff indipendentemente dalla composizione botanica.
I Tukano credono che la snuff sia stata acquisita direttamente dai testicoli del dio Sole che si era ferito accoppiandosi con la figlia.
Infatti conservano la polvere in contenitori chiamati muhipu-nuri, “pene del sole”. L’assunzione della resina permette ai nativi di entrar in contatto con Viho-mahse, “l’uomo snuff”, che vive nella Via Lattea [11].
Preparazione
Un primo report del 1938 aveva suggerito che fossero le foglie ad essere impiegate per la produzione della snuff [12], Schultes ha poi attenzionato l’essudato prima chiaro e liquido e poi rosso e denso [6].
Tuttavia si è visto che la droga era costituita in realtà dalla linfa dello strato cambiale appena al di sotto della corteccia.
Solo i nativi Paumarl dell’Amazzonia centrale usano tutta la corteccia [13].
Schultes descrive nel dettaglio la preparazione presso i Puinave: la corteccia viene raccolta durante le prime ore del mattino prima che il sole abbia toccato il tronco, altrimenti viene pregiudicata la quantità e la potenza del lattice.
I fasci vengono lasciati a mollo in acqua per circa mezz’ora, quindi si raschia l’essudato coagulato sullo strato interno con un coltello.
Il materiale raccolto viene messo in un pentola, poi impastato e pressato con una piccola quantità d’acqua che diventa subito torbida e fangosa.
La soluzione viene filtrata diverse volte quindi viene aggiunta ulteriore acqua fino a riempire la pentola che viene poi messa a cuocere a fuoco lento per 3-4 ore.
Durante la cottura si forma una schiuma sulla superficie della soluzione che viene sistematicamente rimossa con un pezzo di corteccia.
Alla fine rimane uno sciroppo bruno molto denso che viene essiccato e ridotto ad una polvere rossa.
Diverse tribù della Colombia mischiano la polvere di Virola con delle ceneri vegetali come quelle ottenute dalla corteccia del cacao selvatico (Theobroma bicolor e subincanum) [14].
Tra gli Yanomami del rio Tototobi una porzione della resina viene carbonizzata durante l’ebollizione, quindi polverizzata a parte e miscelata con la parte buona in un secondo momento.
Le basi servono probabilmente a facilitare essiccazione e conservazione, oltre a rendere gli alcaloidi più biodisponibili.
Le tribù stanziate attorno all’Orinoco invece fanno a fette sottili lo strato cambiale tra tronco e corteccia, quindi le essiccano lentamente vicino ad un fuoco.
In questo modo le possono conservare per i periodi di penuria: prima dell’uso le reidratano facendole bollire per qualche ora quindi filtrano il liquido e lo riducono ad uno sciroppo denso. Questo viene seccato ulteriormente, quindi polverizzato e setacciato.
La polvere viene miscelata insieme ad una stessa quantità di foglie di Justicia pectoralis var. stenophylla.
Infine aggiungono le ceneri della corteccia di Elizabetha princeps.
Presso altri gruppi Waika invece l’albero viene direttamente abbattuto e le fasce della corteccia poste su un fuoco con la parte esterna rivolta verso le fiamme.
Il calore provoca la fuoriuscita copiosa del lattice che viene raccolto a più riprese, quindi riscaldato a fuoco lento.
Ne risulta una densa spessa di colore rosso ambra, che viene impiegata direttamente senza altri ingredienti [6].
I Sanama, un altro sottogruppo stanziato nel territorio di Roraima in Brasile, raschiano la resina dalla corteccia con l’ausilio di punte di freccia che vengono conservate in un contenitore di bambù.
Le punte infuse vengono utilizzate sia nelle attività venatorie che per ricavarne la snuff allucinogena [15].
Effetti e posologia
Gli effetti d’assunzione della resina tra gli indigeni sono variabili ma in genere induce all’inizio euforia, quindi intorpidimento degli arti, contrazioni spontanee dei muscoli facciali, perdita della coordinazione motoria, nausea, allucinazioni caratterizzate spesso da macroscopia ed infine un lungo sonno irrequieto [16].
Il fenomeno della macroscopia potrebbe essere connesso alle credenze Waika sugli spiriti giganti, hekulas, che vivono negli alberi di Virola ed interferiscono nelle faccende umane [17].
I nativi Waika considerano i dosaggi eccessivi pericolosi e in genere si limitano ad inalare 2 cucchiaini da caffè di polvere, uno per ciascuna narice.
L’intossicazione risultante dura circa 1 ora. Generalmente viene riservata esclusivamente agli sciamani [18].
Solo nella parte più nord-occidentale del Brasile viene assunta da tutto il villeggio sopra i 13-14 anni d’età. In alcune cerimonie viene addirittura consumata costantemente per 2-3 giorni in quantità estremamente alte [11].
A Schultes viene riferito della morte di un curandero Purnave causata da un dosaggio eccessivo di snuff [19].
Quasi tutte le tribù la impiegano per via inalatoria, ma in misura minore viene anche fumata o assunta oralmente.
Ad esempio i nativi Bora e Witoto del bacino amazzonico colombiano la comprimono in pellet da ingoiare o disciogliere in acqua.
Anche i Muiname localizzati attorno a Leticia assumono queste palline oralmente, ma previo mescolamento con delle ceneri vegetali [20].
Sono riportate anche altre admixture utilizzate per i preparati orali come un lichene bianco crostoso non identificato che cresce sulla corteccia della Rinora racemosa; le foglie inumidite di una felce (Anemia sp.) e gli steli spezzati di Philodendron nervosum [21].
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